I CONETTI VANNO IN FILA

Armando era seduto, come al solito, sul retro del furgoncino da lavoro. Era un furgoncino semplice, un poco trasandato, di quelli scoperchiati dietro pieni di attrezzi e di cartelli segnaletici.

Con le gambe penzoloni, Armando guardava fisso la strada dietro di lui.

Il furgoncino era guidato dal suo collega Stefano, ed avanzava lentamente, attorno ai 30 km/h.

Era una giornata fredda d’autunno e l’autostrada era sgombra dal traffico. A volte però sfrecciava vicino a loro un’automobile che, in prossimità del furgone, rallentava bruscamente.

Questo era un buon segno: voleva dire che Antonio stava facendo il suo lavoro, sventolare cioè la bandiera arancione in segno di lavori in corso.

Il cielo era coperto da un velo di nebbia che saliva nervosa dal suolo: era uno spettacolo bellissimo per gli operai, che al mattino presto avevano la possibilità di godersi questo spettacolo naturale.

O quanto meno, se lo stava gustando Armando.

La terra dei campi vicino all’autostrada A6 respirava possente nel freddo autunnale e rilasciava questo alito terso, che si invischiava nei raggi bianchi del sole nascente.

L’atmosfera era angelica. Le ombre erano lunghissime e la luce che cresceva abbagliava a ventate.

Armando spesso chiudeva gli occhi perdendosi in questo lago umido di aria e luce.

Accanto a sé aveva impilati una ventina di conetti stradali.

Il suo compito era di posarli, uno alla volta, sull’asfalto umido e granulato, creando una lunga fila di piccoli ostacoli che trasformavano le tre corsie in due.

Da mesi oramai ad Armando era stato affidato questo compito: era il conettaro del gruppo e questo lavoro gli piaceva moltissimo.

Gli piaceva per diversi motivi: primo perché era un lavoro di squadra. C’era  Stefano, il pilota, l’uomo che riusciva a incollare il piede ai 30 km/h per interi tratti di autostrada senza sgarrare di un chilometro orario; poi c’era Antonio, lo sbandieratore del pericolo, una sicurezza: il suo braccio prendeva un ritmo basculante che solo gli sbandieratori di Siena potevano competere con lui; e infine lui, Armando, il conettaro che creava linee rette senza nessun supporto tecnologico: la sua posa era simile a quella degli architetti di grido, praticamente perfetta.

I tre erano un coro che cantava all’unisono, una macchina vincente stimatissima dal loro capo, il signor Cristaldi.

In secondo luogo, Armando amava quei conetti.

Questi oggetti tutti uguali apparentemente, formavano, grazie a lui, file perfette e si ergevano a salvezza degli operai, simili all’eroicità dei pedoni degli scacchi.

Il suo posizionarli era come un’apertura eccellente di uno scacchiere russo.

Erano lì, semplici e ordinati come fanti in trincea, pronti a sacrificarsi in caso di pericolo.

Più volte Armando si immaginava di essere uno Spassky o un Kasparov che muoveva le sue pedine su una scacchiera d’asfalto immensa, per difendere e lottare contro quelle auto lanciate come Alfieri, come Regine, come Torri contro il suo arrocco perfetto.

Armando insomma amava il suo lavoro meticoloso, nel modo in cuoi uno scacchista amava il vortice delle caselle bianche e nere.

In terzo luogo Armando adorava formare linee perfette.

In un mondo confuso e contorto, l’uomo sul furgoncino ogni mattina tirava le sue rette capaci di semplificare e ordinare il via vai delle vite che incontrava per una frazione di secondo.

Quelle schegge lanciate chissà dove, erano costrette a placare la loro furia per incolonnarsi ordinate su binari che lui tracciava con cura e dedizione.

Così accadeva anche quel giorno e sarebbe successo il giorno seguente e il giorno dopo ancora, per tutta la durata della sua vita.

Così pensava Armando.

Ma un giorno qualcuno la pensò diversamente.

 

2.

— Buongiorno Armando, come sta?

Era il signor Cristaldi, seduto sulla sua poltrona di plastica girevole, che parlava.

Il signor Cristaldi era un gran lavoratore, di quelli della vecchia scuola: poche parole, tanta azione.

— Bene, grazie signore.

Anche Armando non era un logorroico.

— Bene Armando. Arriviamo subito al dunque. Ieri c’è stata una riunione con i sindacati e il vostro sindacalista, il signor Bertoli, ha chiesto un rimpasto nelle attività e nei ruoli svolti all’interno del gruppo.

Armando taceva, forse avrebbe dovuto dire qualcosa, ma tacque.

— Allora, dalla prossima settimana tu guiderai il furgone e al tuo posto verrà una recluta che arriva dalla A1; Stefano prenderà lasciato vacante dal nuovo arrivato sulla A1. Tutto chiaro?

— No.

Il tono di Armando era serio, ma non arrabbiato.

Era più seccato che arrabbiato, come quando uno viene svegliato a metà della notte dal latrare del cane del vicino.

— No, non mi è chiaro per niente.

Ora era arrabbiato.

 

3.

Il signor Cristaldi prese tra le mani un telefono piuttosto malconcio e cominciò a giocare a snake.

— Armando non ho voglia di perdere tempo. Non c’è nulla di difficile da capire. Si ruota. Si fa un turn over.

— Io non ho nessuna intenzione di ruotare, signor Cristaldi. E non farò nessun turn over.

— Suvvia Armando, non facciamo i bambini! È il sindacato che lo vuole.

Nel dire questa frase Cristaldi aveva assunto un tono politichese, come se avesse enunciato uno dei dieci comandamenti.

— Me ne fotto del sindacato.

— Ma cosa dice, Armando? Il sindacato lo fa per voi, perché non vi logoriate sul luogo del lavoro in mansioni troppo ripetitive e alienanti.

— Me ne fotto degli alieni e delle mansiononsochè troppo ripetitive. Io sono un conettaro e conettaro rimango.

— Signor Armando, mostri più rispetto per il sindacato che lavora per voi! Dio mio, adesso devo pure difendere io il sindacato che tutti giorni mi fracassa le palle con almeno una decina di telefonate.

Cristaldi batté il telefono sul tavolo. Neanche il primo livello di snake aveva superato, per colpa di Armando chiaramente.

— Io so bene cosa è il mio bene. Del sindacato so solo che mi sta rompendo le palle pure a me, da oggi.

— Bene, siamo in due, sospirò Cristaldi.

— Ma da oggi pure te me le stai fracassando!, continuò il capo cantiere, visibilmente irritato.

— Mi dispiace signor Cristaldi, ma dal fondoschiena del furgoncino io non mi muovo, come neanche Stefano dalla guida. Siamo una squadra!

— Ci mancava pure questa, sospirò Cristaldi.

L’uomo si alzò dalla poltrone, e tirò un pugno contro il laminato del suo ufficio, un prefabbricato di cinque metri per tre.

— Ora risorge anche la lotta di classe, ma contro il sindacato! Una lotta intestina tra gli operai e i propri difensori. Dove finiremo? Dio mio!

— Lasciando stare il buon Dio, che ha altri problemi ben più gravi da risolvere, non capisco perché la faccia così grossa? Se ne fotta pure lei del sindacato e faccia come le dico io, con tutto il rispetto.

— Oh bella, adesso mi vengono pure a dire cosa fare, di chi fottersene, chi ascoltare! Vuole per caso fare anche da padrino alla cresima di mia figlioccia, signor Armando, visto che la fa semplice con tutto? Basta solo che trovi un regalino e le cedo la mia carica davanti a Dio!

— Non scherziamo con certe cose, signor Cristaldi, si prenda le sue responsabilità! Io il padrino di sua figlioccia non lo faccio. Al contrario non mollo il mio incarico di conettaro.

Cristaldi calciò un lampeggiante stradale ai suoi piedi e gridò con una voce tonante il suo verdetto.

Conettaro due palle! Dalla prossima settimana lei se ne va sulla A1 a guidare! Discorso chiuso! E non mi venga a rompere più le scatole con i suoi ragionamenti idioti: quanto diamine ci vuole a mettere due conetti in fila OGNI CINQUE METRI! O a guidare ai trenta all’ora? Non abbiamo assunto laureati o chi cavolo ne so io! Lei fa quello che dico io. Punto! E ora sparisca!

E a culmine di questo monologo, preso un conetto stradale, lo scagliò contro la finestrella alla sua destra, sfasciandola in mille pezzi.

Il conetto morì in un angolo sperduto del cantiere.

Armando tacque. Aveva appena assistito ad un omicidio, per di più in diretta.

Lentamente si alzò, tenendo fisso lo sguardo sulla finestra squarciata.

Cristaldi ammutolì e si sedette. O aveva vinto o aveva straperso. Ora la mossa toccava al suo operaio Armando Tavolacci.

— Cristaldi, sa cosa le dico? Che io me ne fotto pure di lei e delle sue paranoie. Sa cosa vuol dire mettere i conetti nel modo giusto, al posto giusto, con la distanza giusta, CHE TRA L’ALTRO LEI NON CONOSCE e che tira a indovinare? Vuol dire dare spazio adeguato agli operai per lavorare, vuol dire creare la giusta linea di cancellazione di una corsia, cosa che permette un giusto smaltimento del traffico delle auto senza creare ingorghi o frenate improvvise; io Stefano e Antonio, ogni mattina, ripassiamo a controllare che non ci siano conetti rovesciati a terra, cosa che nuocerebbe alla sicurezza di tutti. La distanza media dei conetti non deve essere alterata, altrimenti questi buchi potrebbero confondere i guidatori, con conseguenze a lei note e arcinote. Inoltre controlliamo che il colore catarifrangente di ogni singolo conetto non sia oscurato dal logoramento o dallo sporco, che spesso intacca la plastica.

Qui Armando riprese fiato. Poi riprese.

— Sono i conetti che si logorano. Non il sottoscritto. Inoltre farò finta di non aver visto come lei li tratta.

E indicò la finestra rotta.

— Ora, le spiego un’ultima cosa. Io non ho studiato molto. Ma giocare a scacchi mi piace. Dunque: lo sa cosa succede quando un pedone raggiunge la prima fila di caselle dell’avversario?

Cristaldi, stordito, fece segno di no con la testa.

Armando era vicino allo scacco matto e decise di giocare con la sua vittima.

— Allora se lo vada a cercare su Google, e poi capirà perché quel conetto lanciato così violentemente fuori dalla scacchiera, non meritava questo trattamento.

Armando si sedette esausto sulla sua sedia.

Cristaldi lo guardava esterrefatto.

Aveva appena assistito alla scena più assurda della sua vita.

Ci si poteva fare una tesi di laurea con le argomentazioni del suo Armando, il conettaro.

Aveva creato un mostro! Oppure no.

— Lo so che sta pensando che io sia un mostro o chissà cosa. Ma le volevo solo dire che la mia squadra è unica, la migliore e, per grazia del buon Dio, lavora per lei. Affanculo il sindacato che vuole distruggerla!

Cristaldi non aveva davanti un pazzo ed evitò con classe lo scaccomatto.

— Sì, signor Armando. Si fotta il sindacato. Da oggi arrocchiamo!, e alzò il telefono. Non più quello scassato, ma quello fisso con il quale velocemente compose un numero a memoria.

— Pronto, sono il signor Cristaldi. Voglio parlare con il sindacalista Bertoli.

 

 

4 pensieri su “I CONETTI VANNO IN FILA

  1. Bellissimo racconto!! Ci sono delle immagini che mi sono piaciute moltissimo, come il “lago umido di aria e luce” e la metafora della scacchiera. Inoltre, c’è anche spazio per un po’ di ironia, un gran bel mix, complimenti!

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