DIMMI A CHE COSA È SERVITO?

1.
Alle sei di sera la luce del sole correva rasentando l’asfalto. Il prato vicino alla strada profumava d’inverno. L’inverno, non così freddo in quei giorni, si riposava respirando con lunghi sospiri. Una nebbia soffice calpestava l’aria senza preoccuparsi di nulla.In questi momenti a Tito non piaceva stare chiuso in camera e allora, chiamava con sé Mako e cominciava a correre fuori città.
I due non correvano per sport o per hobby.
Correvano perché cosa si poteva fare d’altro quando tutto attorno a loro stava fermo?
La madre di Tito era seduta sul divano a guardare una serie tv americana degli anni ‘80. Il padre era immerso nella vasca d’acqua calda, dopo una giornata di lavoro estenuante. La nonna dormiva da quasi due ore. Dragan, il cane, fissava fuori dalla finestra i passeri che si posavano sul davanzale. Anche la luce era spenta, bisbigliando a qualcuno frasi stanche e ripetitive.
Era a quel punto che Tito si infilava le sue Adidas, scendeva a salti le scale di due piani, suonava a Mako e, senza troppi giri di parole, si trovavano per strada e, dopo qualche minuto, nella zona della periferia. Qui tutto era identico al loro quartiere, ma tutto era più largo. E poi c’era la ferrovia.
— Mako ci sei?
— E dove vuoi che sia cretino? —
— Allora diamoci una mossa. —

2.
Sia Tito che Mako non amavano tanto i treni, ma i binari sì. Così cominciavano a correre a lato delle lingue di ferro.
La loro non era una corsa controllata. Era sfrenata, da subito. Quando sentivano il cuore a livello dei molari, solo allora si fermavano, di colpo. Aspettavano che i polmoni ricominciassero a smettere di gridare, e poi ricominciavano.
Questa loro attività non piaceva molto ai loro genitori. In particolare il padre di Mako, Milan un ormone di 95 libre, disapprovava le loro uscite serali. Per Milan potevano fare quello che volevano, ma uscire in periferia alla sera, questo proprio non lo sopportava. D’altronde aveva le sue ragioni.
La zona che i due ragazzi usavano per macinare chilometri a zonzo non era la più adatta: si trattava di un ex quartiere industriale, la cui fama era nota, purtroppo, per i suoi traffici non proprio legalissimi.
Ma Milan, alle sei del pomeriggio, era ancora impegnato a dare lezione di boxe in una palestra non lontano dal centro della città.
— Mako!? Ci sei? —
Questa volta il ragazzo non rispose e con uno scatto superò l’amico, sputando rumorosamente alla sua destra.
—Bastardo di un Mako maledetto, chi ti credi di essere!? —
Come Tito riuscisse a correre e parlare con tanta foga, solo la sua milza lo sapeva.
I binari, silenziosi, li seguivano muti e fedeli. In alcuni punti Tito e Mako scavalcavano con agili salti le reti di protezione prostrate a terra, riuscendo a balzellare tra le traversine e i binari.
Questo era un altro vizio che Milan non sopportava, ma i suoi richiami erano sempre stati inutili.
A difesa di suo figlio e dell’amico, si poteva sostenere che la maggior parte di quelle linee, in quella zona, fossero inutilizzate e morte: ma questo non tranquillizzava Milan.
— Tito ci sei? —
Silenzio.
— Tito non fare il cretino! Sento i tuoi passi! —
Mako stava mentendo: l’unica cosa che si poteva udire in quel momento, era lo sferragliare di qualche locomotiva non vicina, ma neanche poi troppo lontana.
— Tito!? Se sei stanco ci fermiamo un attimo. —
In realtà Mako era già fermo e si era voltato indietro a cercare l’amico.
Lo spettacolo era terribilmente stupendo.
Scheletri di fabbriche coloravano di grigio e azzurro l’orizzonte. Il sole rimbalzava tra le colonne di acciaio e i finestroni rotti degli stabilimenti abbandonati. I binari, su cui ora si trovava, serpeggiavano come radici in una giungla tropicale, facendo perdere la profondità e la prospettiva dello sguardo; gli stanchi raggi bianchi pattinavano su di essi, come anziani danzatori sul ghiaccio.
Mako si dimenticò per qualche secondo di Tito e si perse a contemplare lo scenario. Respirava a polmoni spalancati.
La milza pulsava simile ad un ago di una macchina da cucire. Il sudore gelido gli plasmava la schiena. I capelli erano incollati alla fronte, tranne che per un ciuffo che vibrava al vento.
Il ragazzo si piegò lento sulle ginocchia.
Spesso Tito prendeva percorsi alternativi ai suoi, per poi ricomparire improvvisamente dal nulla. Di sicuro anche oggi stava facendo il solito gioco.
Una bottiglia di vetro rotta si trovava vicino alla sua scarpa e Mako, a sfida, ci appoggiò sopra il piede, facendola dondolare. Alla fine la calciò facendola fracassare contro uno di quegli aggeggi per cambiare manualmente il corso dei binari.
— Tito? —
— Tito?! —
Di colpo, come un fantasma fino allora rimasto nascosto, comparve davanti a lui la locomotiva di cui prima aveva sentito il suono. Mako fece un violento scatto a sinistra, vedendola terribilmente vicina. In realtà non lo era, ma lo spavento che provocò in lui fu fortissimo.
La locomotiva continuò il suo sbuffare e gli passò davanti, ad una decina di metri.
— Maledetta locomotiva, cosa vuoi dar ragione a mio padre! Questi sono binari morti, cacchio! —
Mako sputò violento per terra e col piede sparse la saliva sul terreno ricoperto di cicche e pietre.
Il suono che il treno produsse, gli si infiltrò nelle vene e lo fece respirare affannato per tre minuti buoni. Anche le rotaie su cui era sussultarono, trasmettendogli un tremore innaturale.
— Tito? Dove sei, razza di cretino? Non stiamo giocando a nascondino! —
Mentre stava pronunciando la parola “nascondino”, un colpo di fucile risuonò ovunque.
Silenzio.
Gli occhi di Mako si chiusero per orientarsi.
— A destra, no… più in là… da quel capannone. —
Un secondo colpo di fucile squarciò il cielo. Poi un vetro esplose. La pioggia di schegge gli parve di vederla.
— San Michele arcangelo proteggi Tito, anche se non si merita il tuo intervento! —
Mako roteò su stesso.
— Di là! Quella vecchia fabbrica con la ciminiera. Ci sono delle vetrate e del fumo. —
A Mako venne improvvisamente voglia di pisciare. Si giro da una parte e pisciò veloce, incurante di essere contro vento. Si aggiustò i pantaloni e le scarpe e scattò elettrico.
La locomotiva oramai era lontana.
Uscì dai binari e tornò sulla strada asfaltata. Corse un po’ insicuro verso quello stabilimento che aveva individuato più per istinto che per logica.
Non osava più evocare il nome di Tito.
Ora non sudava più e tremava dal freddo.

3.
Tito, quando si era visto superato da Mako, di fiato non ne aveva più da un po’ di tempo.
Aveva visto in lontananza la locomotiva avvicinarsi e, coperto dal suo sferragliare, si era distanziato dall’amico. Era stato attratto da una costruzione fatiscente tutta acciaio e vetro. A grandi balzi si era avvicinato fino a penetrarci dentro.
Qui si era fermato a studiare il posto, dimenticandosi anche lui per qualche istante di tutto.
La locomotiva nel frattempo stava facendo il suo percorso, spaventando Mako e allontanandosi sul filo dell’orizzonte.
— Maledetto Milan, porta sempre sfiga. Su centinaia di binari morti, abbiamo attraversato gli unici ancora vivi! Questa gliela devo far pagare a Mako. —
Proprio in quel momento sentì l’amico chiamarlo.
—Ehehehe, adesso impazzirai un po’ a trovarmi, cretino! —

4.
Mako vedeva le ombre allungarsi, come anche l’ansia per ritrovare Tito.
Lo trovò a caso, seduto tranquillo su un pezzo di calcestruzzo crollato dal soffitto.
Fumava una Marlboro rossa quasi fosse il direttore di quello stabilimento in decadenza in pausa pranzo. Nel contempo, come nulla fosse, armeggiava un fucile di dimensioni mastodontiche.
— Tito bastardo! Ma che diavolo fai!? —
— Mi hai dato del cretino una volta di troppo, cretino! Dunque mi sono offeso e me la sono presa. E ora me ne sto qui ad aspettare le tue scuse. —
– Ma guarda che idiota! È stai pure fumando!? E poi che caspita stai tenendo in braccio! Sei matto! Dove l’hai preso? Non l’avrai mica… —
In quel momento si ricordò degli spari uditi poco prima.
—Tu sei matto, sei matto come un cavallo imbizzarrito, ma ti rendi conto di quello che hai fatto. —
— Eh eh eh! — sogghignò Tito.
— E se la ride pure!? — Mako era fuori di testa e tirava calci ovunque alzando un polverone irrespirabile.
I due ragazzi erano nella penombra dell’ultimo sole. Tutto assumeva una connotazione spettrale, se non che i due rendevano la scena una tragicommedia.
Tito cercò di riportare i toni su un piano più adolescenziale.
— Senti Mako: ho esagerato e sto esagerando, ma quando ci ricapiterà di trovarci in una serata così, con sigarette gratis, un fucile a pompa funzionante tra le mani, e un regno decadente tutto nostro?
— Tito ti prego! Non voglio sapere come hai trovato tutte questa cose! Tra l’altro, da un momento all’altro qualcuno potrebbe venire a reclamarle! E poi come diavolo sai usare un fucile!? Dio mio, Dio mio… in che casino siamo. —
— Mako calma! Vedi che non c’è nessuno! Siamo nel deserto più deserto di Belgrado e tu stai a preoccuparti che qualcuno passi da… —
Mako lo interruppe isterico.
— Ma se è appena passata una locomotiva! E ti giuro che non era telecomandata! —
Silenzio.
L’illuminazione dello stabilimento aveva qualcosa di magico.
In mezzo a questo incantesimo, due ragazzini con un fucile in mano se la spassavano con il terrore nelle vene.
— Senti Mako, prova a colpire quel finestrone sopra di noi. —
— Neanche se San Michele Arcangelo in persona me lo ordinasse. —
— Ma dai, caro Mako: si vede proprio che tua madre va sempre a messa. Di’ che hai paura? —
— Oh Tito! Come se tua madre, ogni mattina, non accompagnasse la mia santa mamma in parrocchia. —
— Sì, ma mia mamma ci va perché ci va la tua! Lo so che la obbliga. —
— Tutte scuse Tito, e comunque degli angeli, bisogna vere un p0′ di reverenza!—
Nel frattempo Tito armeggiava per ricaricare l’arma.
—Ok Mako, allora vediamo cosa succede se spariamo dritto in cielo. Il proiettile raggiungerà San Michele? —
— Tito fermati! Questa è una bestemmia bella e buona: come ti salta in mente di sparare al Capo delle Armate celesti! —
— Beh, vediamo se risponde? —
— Ma certo che risponde, cretino! Ha una spada della porca miseria e poi…, comanda a bacchetta migliaia di milioni di angeli che si scateneranno contro di noi! Non farlo! Hanno tutti le ali di fuoco…, credo. —
Ebbe solo il tempo di finire di parlare e il colpo era già partito.
Un boato e poi un fragore di vetri e una pioggia di calcinacci riempirono la scena.
I due ragazzi si ripararono alla buona sotto qualche cartone e un materasso.
Silenzio.

5.
Mako piagnucolava.
— Ora moriremmo fulminati, dilaniati da milioni di frecce e lampi e tuoni e fulmini. Santa Maria proteggici; San Michele perdonalo, io non c’entro nulla. —
Il tramonto illuminava il terreno massacrato della vecchia fabbrica e una palla di fuoco si spalmava sulle pareti giallognole dello stabile. Il sole oramai si sforzava di dare luce a questo scenario delirante.
Tito si rialzò da terra.
— Ehi Mako, hai visto! Secondo me San Michele ha usato il suo scudo per proteggersi. Come potevi pensare che lo ferissi: avrà un mega scudo, una corazza fatta di super acciaio! —
Mako piangeva.
— Basta Tito, non scherzare con Lui. Magari ha solo fatto finta di non sentirci, si è fatto una risata con i suoi generali e via. Ma ora basta. —
Tito in realtà era assorto in chissà quali pensieri.
— Sai a cosa penso, Mako? Dovresti provarci te? Io in fondo l’ho fatto per scherzo. Tu lo faresti per un sano motivo. Sì, sì: devi sparare te! Ti obbligo. —
Il salone era divenuto arancione e tutto aveva cambiato colore.
Mako era allibito, aveva la gola secchissima e cominciava anche a pensare alle botte che si sarebbe preso quando sarebbe ritornato a casa.
Tito insistette.
— Pensaci un attimo, Mako. La tua vita è uno schifo, come la mia d’altronde. Non sarebbe forse giunta l’ora di farsi sentire una buona volta? Con un esercito di angeli alle spalle San Michele potrebbe darci una grande mano! Dobbiamo solo richiamare la sua, come dire…, attenzione. E cosa c’è di meglio di una bella fucilata diritta nel suo regno? Ma senza far male a nessuno, sia chiaro! Mica vorrai credere che un proiettile infastidisca un angelo: e non dico un angelo qualsiasi, ma il Capo dei capi degli angeli! —
Mako tremava, e per una frazione di secondo stette al gioco, se così si poteva chiamare.
Mako pensò alle fatiche di sua madre, a quelle di suo padre che ogni giorno tornava stravolto dalla palestra, alla sorellina che a stento mangiava l’indispensabile, al suo fratello più grande che da anni cercava un lavoro e che al massimo veniva occupato come scaricatore di porto. Come dimenticare poi la nonna e il nonno, i cugini e le zie, costretti tutti ad una vita in appartamenti fatiscenti.
Silenzio.
Senza dire una parola, Mako impugnò il fucile, lo caricò copiando i gesti di Tito, lo puntò in alto verso la serie di finestre tipiche delle strutture industriali e trattenne il respiro.
Poi sparò.

6.
Il boato accompagnò un pioggia di vetri che una divinità fece sì che non spappolasse e infilzasse i due ragazzi.
Quando la polvere cominciò a diradare, solamente il fucile rimaneva puntato in verticale, fumante.
— San Michele Arcangelo, ci sei? — sussurrò Mako.
Poi alzò la voce.
—San Michele, Principe delle schiere celesti, ci sei? Ti sei arrabbiato? Ti sei arrabbiato almeno un po’?! San Michele, diavolo, fatti sentire! —
Nessuno avrebbe mai potuto sapere se le frasi pronunciate da Mako fossero richieste, scuse, preghiere o chissà cosa.
Il ragazzo era accoccolato in un buco nel terreno, che forse in passato aveva ospitato una piccola cisterna.
Il tramonto oramai stava coprendo tutto con una coltre rossa. Gli stessi occhi di Mako che erano azzurri, ora sfumavano nell’indaco.
— Tito? —
— Bravo Mako, bel casino hai fatto. Sono fiero di te! —
— Bravo un corno, Tito! Dimmi a cosa è servito fare questo macello? —
Silenzio.
Sempre più silenzio.
— A niente Mako, non è servito a niente. Forse hai ragione. Ora però torniamo a casa, che le cinghiate dei nostri padri non ce le leverà nessuno. —
Silenzio.
Tito si era fatto serissimo.
Mako cominciò a frignare.
– Ma allora San Michele non esiste? Chi mi difenderà dalle cinghiate? Vedi che abbiamo fatto una stupidaggine. —
Tito reagì rabbioso.
— Ma cosa dici?! Certo che esiste, cretino, e ora l’abbiamo fatto molto arrabbiare e allora sai che botte ci prenderemo stasera, se non ci muoviamo a tornare ad un’ora decente! —
Mako e Tito si alzarono all’unisono, senza guardarsi negli occhi.
Si scrollarono di dosso lo sporco che si era accumulato su di loro.
Tito spolverò con violenza le Adidas.
Mako aveva solo della vecchie Puma un po’ strappate ai lati per gli infiniti calci tirati a palloni di cuoio troppo ruvidi.

7.
La prima luna, insieme a una lunga striscia rossa all’orizzonte, illuminava il loro ritorno a casa.
Mako continuava a invocare San Michele e tutto l’armamentario bellico paradisiaco.
— Ti prego San Michele, non mi trattare come un pezzente. Io ti credo e ti ho trattato male. Non mi fulminare, non mi squartare: è stata colpa di Tito. Sono caduto in tentazione: sono stato un iroso, un violento, un profanatore. —
La corsa  dei due ragazzi era angelica: erano balzi, più che passi; erano volteggi più che derapate.
Arrivati sotto casa, i due ragazzi si abbracciarono quasi fossero all’ultimo istante della loro vita.
Le voci delle loro famiglie rivitalizzavano i muri scrostati del palazzo.
Mako salì.
La porta di casa era socchiusa come a preannunciare dolori futuri.
E così avvenne.
Quando il giovane incrociò la mano di suo padre, il risultato fu un rivolo di sangue che cominciò a colargli dalla narice sinistra.
Lo schiaffo di un pugile mancino non scherza mai.
Poi, all’improvviso, in un misto di lacrime e sangue, si accorse che la cinghia non compariva tra le armi di punizione. Al contrario, una stretta lo imprigionò contro la faccia di suo padre.
L’umido che percepì non era sudore, ma muco e lacrime.
— Mako! Mako! Proprio oggi dovevi tardare, mascalzone! Sei proprio un mascalzone come tuo padre: se solo imparassi a tirare qualche pugno degno di questo nome! Comunque…, Mako non sai cosa sta per succedere, anzi, non sai cosa è successo! —
Il figlio non capiva niente. Era bloccato tra schiaffi e abbracci.
— Mako mio, ma ti rendi conto? Tua mamma aspetta un fratellino. E tu dov’eri quando questa notizia è arrivata a casa? Chissà dove! Miseria di un Mako! —
E un nuovo schiaffo colpì il volto del ragazzo, con un bruciore vivissimo.
La madre in un angolo, sorrideva e piagnucolava accarezzandosi la pancia. Mako avrebbe scambiato le sue inseparabili Puma per uno di quei docili tocchi materni.
Milan lo richiamò subito alla realtà dura.
— E ora Mako, nonostante la tua ingratitudine, dicci: quale nome gli vorresti dare? —
Mako non esitò un centesimo di secondo.
— Michele! Come l’Arcangelo! —
Suo padre lo guardò stupito.
— Oh! E bravo il nostro Mako! Un po’ dì intelligenza la conservi ancora nella tua zucca semivuota!— e gli rifilò l’ultimo colpo, questa volta nello stomaco.
Per Mako, però, l’importante era che la cinghia rimanesse là, distesa a terra vicino al televisore.

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